Skip to content
Regno delle due Sicilie

Il “Banco delle due Sicilie”: il Sud è mai stato il motore ricco d’Europa?

6 Ottobre 20215 minute read

Disclaimer: i temi di cui parla questo articolo sono molto controversi, motivo per cui abbiamo esposto prima le tesi dei cosiddetti “neoborbonici” e poi abbiamo integrato l’articolo con un video in cui il Professor Alessandro Barbero smonta questa narrazione a favore di quella che viene comunemente definita “storiografia ufficiale”. Come sempre, i confini tra la propaganda e i dati di fatto sono molto sfumati. Buona lettura.

Com’è ormai noto, il Meridione rappresenta un problema molto complesso, per il nostro Paese. Il sottosviluppo che grava ormai da decenni sulla parte inferiore dello stivale impedisce infatti una vera unificazione dell’Italia, oltre a rappresentare un motivo di recriminazione per milioni di persone.

Nel corso degli ultimi anni, peraltro, proprio queste recriminazioni hanno dato vita ad una sorta di revival, da alcuni bollato spregiativamente come neo-borbonico. Il quale, secondo i suoi sostenitori, non si fonda sulla leggenda, ma su dati di fatto che sono ormai in parte accettati anche dalla storiografia, soprattutto in quanto fondati sui documenti. Basti ricordare in tal senso quanto affermato da Francesco Saverio Nitti, politico lucano e grande esperto di finanze, ne “Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1897”. In cui sostenne che l’Italia del Regno delle Due Sicilie portò in dote alla nuova Italia “minori debiti e più grande ricchezza pubblica”. Oltre ad affermare una tesi che sembra fatta apposta per incrinare quella che appare ormai ad un numero crescente di persone alla stregua di una leggenda metropolitana, ovvero la povertà del Meridione di fronte ad un Nord già ricco e industrializzato. Secondo Nitti nel primo periodo post-unitario si ebbe un notevole “esodo di ricchezza dal Sud al Nord”, favorito dalle politiche intraprese dal nuovo Regno d’Italia a trazione savoiarda.

Una tesi sposata da due ricercatori, Vittorio Daniele (UniCz) e Paolo Malanima (Cnr), i quali hanno pubblicato nel 2013 un articolo recante i dati di una indagine sulla nascita e l’evoluzione delle disparità regionali nel nostro paese. Dimostrando in particolare come il divario economico tra Nord e Sud nacque solo alla fine dell’Ottocento. Nel 1861, infatti, il Paese unificato era caratterizzato da una economia prevalentemente preindustriale, con un 64% di lavoratori nel settore agricolo e la restante parte suddivisa tra industria e servizi. Già 50 anni dopo, però, si era formato il triangolo industriale formato da Genova, Torino e Milano. Mentre avevano perso colpi, nel frattempo, Campania e Sicilia.

Una tesi, quella del sottosviluppo meridionale nel periodo pre-unitario, aspramente contestata anche da sinistra. Come fecero Edmondo Capocelatro e Antonio Carlo nel loro libro: “La questione meridionale – Studio sulle origini dello sviluppo capitalistico in Italia”, edito da La Nuova Sinistra nel 1972. In cui sostennero tra l’altro che la tesi sull’arretratezza e l’ottusità della borghesia meridionale sarebbe una “colossale invenzione e mistificazione storica”.

E anche la classe operaia già sviluppata nel Meridione racconta una verità diversa dalla vulgata attualmente accettata. Come può testimoniare il caso di Ferdinandopoli, una comunità fondata dal penultimo sovrano delle Due Sicilie, a San Leucio, nei pressi di Caserta. Una vera e propria città socialista che ricalcava idealmente quanto prefigurato da Tommaso Campanella nella sua Città del Sole. Nella quale gli operai avevano pari diritti e doveri e autogestivano il proprio lavoro, producendo seta con tecniche avanzatissime. Una esperienza terminata dopo l’Unità d’Italia, nel 1866, quando la nazionalizzazione portò infine al fallimento e alla chiusura di Ferdinandopoli.

In questa ottica, anche il sistema bancario meridionale è in grado di portare il suo tributo alla rottura di schemi fondata su fatti e documenti. Come dimostra la storia del Banco delle Due Sicilie. Per capire la quale occorre partire dal 1539, anno in cui fu fondato il “Monte di Pietà”, un istituto al quale venne affidato il compito di fornire prestiti a tasso zero a favore di coloro che si trovavano in una situazione di estrema povertà. Ai quali, appunto, si chiedeva un pegno come forma di garanzia per la restituzione dei soldi concessi.

Banco delle due Sicilie
Banco delle due Sicilie

Nel 1854, dopo aver iniziato a svolgere attività bancaria e di deposito, l’istituto si trasformò in un Banco. Mentre in tutta Napoli si registrava un fervore di attività bancarie. Testimoniato dalla nascita di altri sette istituti bancari pubblici: il “Monte e Banco dei Poveri” (1563), il “Banco della Santissima Annunziata” (1587), il “Banco di Santa Maria del Popolo” (1589), il “Banco dello Spirito Santo” (1590), il “Banco di Sant’Eligio” (1592), il “Banco di San Giacomo e Vittoria” (1597) e il “Banco del Santissimo Salvatore” (1640). Tutti ispirati dalla volontà di fare carità e assistenza nei confronti dei bisognosi, ad eccezione dell’ultimo.

Il processo avviato proseguì nel corso dei secoli successivi e culminò infine nella nascita del Banco delle Due Sicilie. Fondato da Gioacchino Murat e capace nel 1860 di raggranellare una ricchezza pari a 440 milioni di lire. I cosiddetti “neoborbonici” sostengono che a questo punto che la ricchezza monetaria di tutti gli altri Stati italiani messi insieme non arrivava ad un valore di 230 milioni di lire.

Considerata l’importanza del sistema bancario nell’Europa odierna, questo è il dato maggiormente usato per sostenere le tesi del movimento neo-borbonico.

Ma è davvero così?

Quanto abbiamo scritto qui sopra è frutto di teorie e studi di alcuni storici, ma ci sentiamo in dovere di dar voce anche alla controparte. Qui un video in cui il noto storico Alessandro Barbero confuta le tesi dei neoborbonici.

Leggi anche
Torna su
Cerca